Misurare il lattato durante un test incrementale è il modo migliore per valutare il livello di performance e programmare l’allenamento
Infatti, se si affronta una corsa ad un ritmo troppo intenso, il lattato prodotto non riescirà più ad essere metabolizzato e si accumulerà nel sangue nel giro di pochi minuti provocando doloree bruciore muscolare e costringendo l’atleta ad interrompere lo sforzo o a ridurne l’intensità fintanto che il metabolita tossico non venga rimosso. L’intensità di esercizio associata ad un accumulo di acido lattico, viene definita come soglia anaerobica.
Ma che cos’è il lattato o acido lattico? E’ un catabolita prodotto dalla contrazione muscolare che avviene per conversione dell’energia chimica in energia meccanica. La produzione di lattato è in funzione dell’intensità del lavoro muscolare.Entro determinate velocità di corsa, l’acido lattico prodotto viene riutilizzato dai muscoli respiratori e dal cuore dopo essere stato riconvertito dal fegato in glucosio mediante il ciclo di Cori. Oltre questa intensità o soglia, la velocità di produzione del lattato supera la sua velocità di riutilizzo con un conseguente accumulo che, come detto, porta ad un rallentamento del ritmo o ad uno stop.
La misurazione del lattato mediante il prelievo di una goccia di sangue dal lobo dell’orecchio e con l’utilizzo din uno specifico strumento di misura, permettere quindi di individuare la potenza meccanica e/o la frequenza cardiaca in cui si raggiunge il punto critico in cui l’acido lattico inizia ad accumularsi. Tale velocitàè appunto denominata velocità di soglia.
Da questa introduzione risulta evidente che determinare con precisione la soglia anaerobica permette di fornire un elemento fondamentale per la programmazione dell’allenamento degli sportivi che praticano discipline aerobiche. In effetti maratoneti, ciclisti, triathleti, nuotatori e fondisti si sottopongono regolarmente al test del lattato per verificare il proprio livello di allenamento e per impostare le sedute successive.
Come si misura il lattato – tipologie di test in laboratorio e sul campo
I test che permettono di calcolare la soglia anaerobica possono essere condotti in laboratorio o su campo: i primi vengono di solito svolti su treadmill . Il vantaggio del test in laboratorio consiste nella possibilità di annullare le variabili che possono influenzare la prestazione quali il vento, la temperatura e l’umidità.
Inoltre, l’uso del tapisroulant consente di definire con precisione la velocità, mentre sul campo l’atleta deve essere in grado di gestire l’andatura in maniera autonoma. Se ciò è fattibile per un atleta evoluto, non lo è per un podista di livello medio.
Comunque, anche in laboratorio bisogna rispettare dei criteri generali per una valutazione affidabile che possono essere riassunti in tre punti principali:
non effettuare allenamenti particolarmente intensi nella giornata precedente il test
alimentarsi in maniera adeguata (come se si dovesse affrontare una gara)
svolgere un riscaldamento di almeno 20 min. con delle fasi finali ad alta intensità
Dal momento che la produzione di acido lattico è condizionata dalla muscolatura impegnata nel gesto atletico, è fondamentale che la prova in laboratorio sia condotta utilizzando l’ergometro specifico in funzione dello sport praticato, quindi treadmill per podisti e cicloergometro per i ciclisti.
Come si interpreta il test in funzione del tipo di gara
Secondo Mader, il fisiologo che ha codificato il protocollo descritto, la soglia anaerobica coincide con il valore delle 4 mmoli di lattato per ml. Tuttavia tecnici e medici che lavorano con sportivi di buon livello hanno verificato che il valore fisso proposto da Mader mal si adatta all’interpretazione di molti test.
Ciò che più si correla con la prestazione non è infatti il valore delle 4 mmoli quanto il punto di impennata della curva lattato-velocità di corsa. Altri autori sostengono che la “prima soglia”, quella a cui per intendersi si svolge il lungo, dovrebbe corrispondere ad un valore di 0,5 mmoli più alto del basale, la “seconda soglia” coinciderebbe invece con un valore di 2 mmoli superiori al primo. Per fare un esempio: se al termine di riscaldamento l’atleta mostra un valore di 1,1 mmoli di lattato (LA), la prima soglia si collocherà a 1,6 mmoli e la soglia anaerobica coinciderà con le 3,6 mmoli/l.
Ciò che inoltre deve essere considerato è l’andamento generale della curva che dovrà essere molto “piatta” ed impennare solo verso la fine nel caso di triathleti e maratoneti (fig. sopra), mentre nel caso di mezzofondisti o podisti che gareggiano su distanze tra i 5 ed i 10 km l’andamento sarà più graduale con un maggiore produzione di lattato. Queste considerazioni guideranno il preparatore atletico nel costruire il periodo di allenamento in modo da ottenere i miglioramenti ricercati.
Perché è utile svolgere un test lattato?
Il test del lattato è il metodo per elezione per la definizione dei ritmi di allenamento e delle staretgie di programmazione delle sedute. Infatti, la definizione della soglia aerobica ed anaerobica permettono di definire a quali velocità (o frequenze cardiache) l’atleta/amatore deve correre nei diversi mezzi allenanti (fondo lento, medio, ripetute ecc). Inoltre, l’interpretazione dell’andamento delle curve di accumulo di LA permette di indentificare punti di forza e carenze dell’atleta ed impostare quindi un piano di lavoro maggiormente individualizzato.
A chi è rivolto il test del lattato?
Il test del lattato non è particolarmente invasivo ne impegnativo. Pertanto è alla portata di tutti. Da chi si avvicina alla corsa e vuole potersi allenare in maniera consapevole e controllata a chi, avendo già un maggior bagaglio di esperienza, voglia incrementare le proprie performance o preparare una gara specifica. L’individuazione dei propri livelli di soglia è utile (se non fondamentale) per ogni atleta/amatore, per permettere un processo di allenamento più preciso.
Quando e ogni quanto tempo bisogna svolgere il test del lattato?
Il test del lattato può essere svolto tra le fasi principali di una preparazione, per monitorare con una cadenza ragionevole le modificazioni fisiologiche apportate dal programma di allenamento. Allo stesso modo, è conveniente svolgerlo quando si inizia a “fare sul serio” con la corsa, per evitare di incorrere negli errori classici del podista, quali correre il lungo al ritmo del medio o svolgere tutti gli allenamenti alla stessa velocità (entrambi questi errori portano con il tempo al decadimento della performance o all’infortunio).
La cadenza del test non è prestabilita a priori. Gli atleti evoluti lo svolgono anche ogni 1-2mesi, ma spesso può essere sufficiente svolgerlo 1-2 volte l’anno, in base ai proprio programmi di allenamento e competizione.
Conclusioni
Il test del lattato è uno dei metodi più affidabili e precisi per individuare la velocità di soglia e per calcolare le velocità del fondo medio e lungo. La sua ripetizione nel corso della stagione può essere utile per verificare l’andamento della forma e per correggere i ritmi di lavoro.
L’analisi della curva del lattato può rivelare all’allenatore eventuali carenze o eccessi nell’allenamento e quindi suggerire correzioni in funzione della distanza di gara da preparare.
Rispettare gli accorgimenti indicati nel secondo paragrafo è indispensabile per ottenere risultati validi.
Intervista a Francesco Cuzzolin, cinquantun anni e una vita a canestro. Amico e sostenitore di Vitalia, è la mens della preparazione atletica del basketazzurro. Collabora con il “Doc” Massarini nel programma di ricerca e sviluppo di Technogym: un team di eccellenze impegnate a scrivere il futuro del movimento, le cui intuizioni giungono, tramite il “Doc”, fino in via della Rocca.
Italia, Europa, America. Ha allenato i Toronto Raptors, la Russia, la Lettonia, la Virtus Bologna e la Benetton Treviso. Il suo curriculum è un giro del mondo, trent’anni di pallacanestro con una sola bussola: “la passione. Quella che cerco di trasformare in qualità del lavoro. Quella dei bravi professori: l’unica cosa che ti ricorderai dopo la scuola”. Insegnare, imparare: per “Cuzzo” – come lo chiamano i suoi ragazzi – è la quotidianità. Dal 2011 preparatore fisico della nazionale maggiore, è anche responsabile dell’intero settore per la Fip e cura la formazione dei tecnici.
Cuzzolin, che fa il preparatore della nazionale quando la nazionale non gioca?
Viaggia. Sono appena tornato da New York, per vedere Bargnani nei Brooklyn Nets. Tra poco ripartirò per Denver, per Gallinari; quindi Sacramento, per Belinelli. Seguiamo i giocatori anche nei club, per coordinarci con il loro staff. La stagione degli azzurri dura due mesi, ma va preparata per un anno intero, studiando le realtà da cui provengono. E poi confrontarci ci fa bene.
Insomma riuscite ad andare d’accordo con le società? Nel calcio sembra impossibile.
Puntiamo ad essere un riferimento, con standard molto elevati nelle procedure di allenamento, nella verifica delle prestazioni, nella didattica. Così ci siamo guadagnati la fiducia dei colleghi. Ormai è interesse (ed esigenza!) di tutti collaborare con la nazionale e il basket sta riuscendo a fare sistema.
Con che soldi?
Pochi. C’è la crisi, è vero, ma il fatto che manchino le risorse non significa che debbano mancare le idee.
Oltreoceano trovate la stessa disponibilità?
Rapportarsi con l’NBA è più complesso, ma ci stiamo provando. Lì i giocatori sono aziende, e c’è il problema del calendario: troppe partite e non se ne vorrebbero aggiungere altre. Ecco perchè la paura delle nazionali…
Dopo 82 giornate “Gallo & co.” vi arrivano stremati.
Negli Usa ci si allena poco e dunque spesso non si è pronti per giocare (ma lo si fa e basta). Una stagione americana logora molto di più di una europea. In ogni caso in nazionale l’urgenza è la stessa, per tutti: curare i sovraccarichi e rigenerare le motivazioni.
Agli ultimi Europei ci siete riusciti.
Si è sentito il sostegno del Paese. Grazie all’accordo con Sky e allo spazio che ci hanno riservato i giornali abbiamo avuto la giusta pressione: quella si traduce in volontà di essere produttivi. Il risultato finale è stato ottimo, il livello della competizione era veramente molto alto.
Ha vinto un oro con la Russia. Mica si emoziona per aver conquistato un preolimpico…
Ce lo siamo meritati. E con che fatica: due mesi lontani da casa, un traguardo importante, tante rinunce. E comunque ascoltare il proprio inno è un’altra cosa.
Cosa?
La spinta emotiva fa la differenza. Con l’orgoglio di vestire la maglia azzurra tutto è più facile.
La testa: un preparatore dev’essere un po’ psicologo?
In questo mestiere è fondamentale costruirsi una professionalità a tutto tondo e saper collaborare. A me è sempre interessata la componente mentale. Ho investito molto su questo aspetto, come anche su quello riabilitativo e organizzativo.
E sulla vocazione internazionale.
Me l’ha trasmessa il “Doc”. Massarini è un mentore per me, sono stato con lui alla Technogym agli inizi della mia carriera. Mi ha aiutato ad allargare gli orizzonti e i contatti all’estero. Oggi è anche un carissimo amico!
A proposito di maestri, com’è “Cuzzo” in cattedra? La sua agenda è piena di corsi.
Sì la Federazione sta investendo seriamente sulla formazione e anche io sono impegnato parecchio. Ma stiamo poco in aula: la palestra viene prima. Offriamo un percorso poco nozionistico e molto vicino al campo.
Cioè?
Insistiamo sul “saper fare” e sul “saper far fare”. Sintetizziamo i contenuti teorici e le lezioni frontali, per dilatare la base esperienzale, sui vari piani: tecnico, tattico, motorio.
Con panchine migliori avremo presto nuovi campioni?
Speriamo. È un momento positivo: Bargnani, Gallinari, Gentile, Belinelli sono figure simboliche. Devono nascerne altre: lo sport vive di eroi…
Però?
Però il basket è un gioco di squadra. E l’eroe esiste solo in una squadra vincente.
Le aziende sane sono le aziende del futuro: i dipendenti costano meno, sono più efficienti e vivono meglio. Nell’ultimo mese abbiamo portato il nostro progetto di check-up in Technogym, gli inventori del Wellness. Un posto dove la salute non è solo parole, ma fatti. Vi raccontiamo com’è andata.
Il programma di wellness check-up, iniziato tre settimane fa in Technogym (lo avevamo presentato qui), sta per concludersi con oltre 400 collaboratori che si sono sottoposti alla visita. Una verifica a 360°: questionari per raccogliere informazioni sullo stile di vita, esami ematochimici, elettrocardiogramma a riposo, controllo posturale, misurazione della massa grassa e calcolo del peso ideale. Al termine della visita, per ognuno è stato redatto un report dettagliato sulle condizioni di salute con i suggerimenti per migliorarle ed un programma di esercizi personalizzati.
L’analisi dei dati raccolti permette di calcolare il rischio di sviluppare patologie correlate ad errate abitudini di vita come la sindrome metabolica che origina da sedentarietà ed alimentazione ricca di zuccheri e grassi saturi. In Technogym il rischio di contrarre questa patologia è nettamente inferiore alla media nazionale.
Perché parlare di salute in azienda
I numeri dimostrano che l’ambiente di lavoro può essere il luogo ideale in cui implementare iniziative improntate al benessere. In ufficio passiamo la maggior parte delle ore della giornata ed è quindi imprescindibile il ruolo delle imprese nel promuovere stili di vita sani. E la soluzione è a portata di tutti: incentivare la pratica regolare di esercizio fisico, organizzare mense aziendali che offrano menu intelligenti… basta poco per migliorare la salute dei lavoratori.
In Technogym, il numero delle persone che praticano esercizio ad intensità elevata è il 50% contro una media nazionale dell’1%, gli inattivi sono il 19% contro il 67% della popolazione. Quelli che consumano 1-2 porzioni di frutta e verdura al giorno sono il 60% contro il 50% della media, mentre quelli che ne consumano da 3 a 5 porzioni sono in percentuale inferiore rispetto alla popolazione.
La prevenzione paga
Sotto il profilo economico, i dati danno ragione alle aziende che investono in questa direzione e dimostrano che il ritorno vale 2-3 volte il denaro speso per l’implementazione di tali iniziative. Il vantaggio è rappresentato da una diminuzione di assenteismo e di spese sanitarie. In Technogym, si è evidenziato che i dipendenti con un indice di Wellness migliore avevano meno ore lavorative perse per motivi di salute e quindi pesavano meno sui costi aziendali. Inoltre, le aziende che offrono come benefits la possibilità di accedere ad una palestra ed ad una mensa con cibi sani esercitano una maggiore attrattiva nel mercato del lavoro e riducono il turnover dei dipendenti.
Technogym è senz’altro una delle aziende che per vocazione e storia meglio rappresenta la cultura del wellness: la sua palestra ed il suo ristorante interno offrono quanto di meglio si possa immaginare per il benessere dei lavoratori. Ora, con il programma di check-up messo a punto da Vitalia e collaudato in altre realtà come Edison, si è completato un progetto in cui le indagini cliniche assumono un ruolo fondamentale per accrescere in ogni persona la consapevolezza della propria salute e garantendo ad ognuno gli strumenti per migliorarla. Infatti, lo scopo dell’iniziativa è anche quello di educare alla prevenzione fornendo informazioni e suggerimenti utili a rendere più attive le persone, a orientarle verso stili alimentari migliori ed ad aiutarle a gestire lo stress. Insomma a migliorare il loro Wellness.
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Il progetto corporate di cui vi abbiamo tanto parlato (qui ad esempio), approda in una nuova azienda. Questa volta sono i dipendenti di Technogyma beneficiare del check-up Vitalia. E Technogym, naturalmente, dalla loro salute ritrovata.
Vitalia a casa Technogym
Valutare il wellness di persone che lavorano nell’azienda che del wellness ha fatto la sua bandiera è sicuramente un compito sfidante. Ma a Vitalia le sfide piacciono e quindi siamo orgogliosi di essere noi, con la nostra équipe medica, a condurre il “Wellness Check-up” in Technogym. Il progetto è partito in questi giorni e si concluderà in poche settimane, dopo aver visitato i circa 400 collaboratori già prenotati.
Come funziona
Il check up prevede vari step: analisi ematochimiche complete, questionario su abitudini di vita e fattori di rischio, valutazione della massa grassa e muscolare, visita medica, ECG a riposo e valutazione kinesiologica. In questo modo si ottengono dati ed elementi su cui impostare un programma finalizzato alla prevenzione ed al miglioramento della qualità di vita. Il tutto si svolge nell’area medica del Wellness Village Technogym dove i due medici, Giulia Franzoso e Chiara Farnedi, assieme al sottoscritto e con il supporto tecnico della trainer Simonetta Senni, visitano e raccolgono dati otto ore al giorno. Al termine del progetto, ogni persona riceverà un report dettagliato sulla sua condizione di salute, sugli eventuali fattori di rischio e su come modificarli e un programma di esercizi personalizzato in base alla valutazione kinesiologica effettuata e finalizzata soprattutto alla prevenzione del male alla schiena ed alle spalle, aree critiche per chi lavora alla scrivania.
Star bene conviene
Positive le prime reazioni dei dipendenti, entusiasti di ricevere consigli ad hoc per migliorarsi, soprattutto su alimentazione e movimento. Si tratta sicuramente di un approccio innovativo, dettato dalla consapevolezza che la prevenzione paga ampiamente i soldi investiti(ecco qui qualche numero: è tutto provato!). E che il benessere sia davvero un’urgenza: tema su cui l’azienda romagnola non spende solo parole ma anche fatti molto concreti. Una coerenza preziosa per far fruttare la collaborazione con il nostro staff: Vitalia da anni svolge questo tipo di servizi e ha potuto portare nella partnership innovazione ed esperienza. Quella accumulata con clienti come Edison, DeAgostini, UTET, Nokia. Quella che, sommata ad attrezzature portatili d’avanguardia e alla passione che conoscete, è la nostra carta di identità.
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Ve l’avevamo detto: chi sta bene lavora meglio. Un’azienda con dipendenti in forma ha una migliore produttività e freschezza e il ritorno sull’investimento in salute è ampiamente positivo: la prevenzione paga… con gli interessi! Lo sanno bene i grandi gruppi internazionali che hanno progetti avviati da tempo, un po’ meno i concorrenti italiani: proviamo a convincere anche loro con i risultati degli ultimi studi scientifici.
Nel panorama mondiale delle aziende si fa sempre più strada l’inserimento di un programma wellness come nuovo benefit ai dipendenti. Abbiamo perciò voluto analizzare i risultati di questa strategia sintetizzando in pillole i risultati delle ricerche condotte negli ultimi anni da Harvard Business review e da Mercer & Marsh Benefits.
Le analisi confermano che, anche in Italia, i benefit per la salute e il benessere rappresentano un valido strumento per attrarre e trattenere talenti, ma le aziende temono un incremento dei costi a causa dell’incertezza economica e dei provvedimenti dei governi in materia di sanità pubblica. Questo è quanto emerge dalla quarta edizione dell’indagine Mercer Marsh Benefit sui temi dell’assistenza sanitaria integrativa e dei benefit legati alla salute che ha fotografato il livello di preoccupazione delle aziende per quanto riguarda la recessione economica e le riforme dei sistemi di welfare nei paesi europei. Anche i partecipanti italiani sono consapevoli del fatto che il Servizio Sanitario Nazionale è destinato a subire pesanti ridimensionamenti nel futuro, sia in termini di gamma delle prestazioni offerte sia in termini di aumento dei costi a carico del cittadino.
E’ comunque consolidato che i vantaggi per le aziende che “investono” sulla salute dei dipendenti si articolino su tre punti: attrarre e trattenere i talenti, gestire i rischi legati alla salute dei dipendenti, aumentare la produttività e la performance. Ne avevamo già discusso qui (ricordate le percentuali impressionanti sull’assenteismo?) ma vogliamo aggiungere nuove prove.
Infatti in un recente studio condotto all’interno di Technogym si è messo in correlazione l’indice di Wellness dell’individuo con il numero di ore di assenza per malattia ed i costi ad esso collegati. Ancora una volta le statistiche hanno confermato che chi si muove di più, mangia meglio ed è meno stressato si ammala meno e fa risparmiare l’azienda. L’ulteriore notizia positiva è che per ottenere dei benefici tangibili non è necessario essere superatleti ma basta modificare di poco il proprio stile di vita introducendo un leggero movimento quotidiano, migliorando la propria alimentazione e il riposo notturno.
Technogym sta trasformando in “esercizio” anche il lavoro: addio mal di schiena con l’active-sitting
Purtroppo, nonostante queste consapevolezze, le attività di prevenzione e di educazione alla salute offerte da le aziende italiane ai dipendenti sono un terzo di quelle offerte a livello europeo.
Forse allora vale la pena di rileggere un articolo uscito a dicembre 2010 sulla prestigiosa Harvard Business Review (qui un estratto). Gli studiosi fanno i conti in tasca ai medici e i risultati sono molto interessanti. A partire dal caso Johnson & Johnson che nel decennio 1998-2008 ha avuto un ritorno di 2,71$ x 1 $ investito, si evidenzia che i programmi wellness rappresentano un cospicuo ritorno economico per le aziende che li implementano. Per ogni dollaro investito si calcola un risparmio che va tra i 2,7 ed i 10 $ in base alla tipologia dell’intervento e dell’azienda: un ottimo ROI!
Vitalia da 7 anni si occupa di programmi wellness nelle aziende (ne parliamo qui). La nostra offerta varia da questionari on-line per “fotografare” lo stato di salute ed i fattori di rischio più rappresentati nella popolazione aziendale a check-up individuali. Il risultato di tali check up è rappresentato da un report dei fattori di rischio per malattie cardiovascolari e metaboliche, da una valutazione della massa grassa corporea, da un’analisi posturale e da una prescrizione sul tipo di attività fisica da intraprendere e su eventuali ulteriori accertamenti da condurre.
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Ospitiamo con piacere una riflessione sui Mondiali di Calcio dell’amico e collega Alberto Andorlini. Responsabile della rieducazione funzionale del Palermo Calcio, Andorlini ha lavorato per Siena e Chelsea, ha allenato Batistuta a Dubai e collabora con Technogym per il progetto di ricerca e formazione sull’Ability Training cui partecipiamo anche noi (qui puoi leggere il nostro speciale sulle Paralimpiadi: la migliore spiegazione del concetto di abilità). E’ un creativo del movimento e dell’allenamento.
Pochi sanno che i mondiali di calcio non si giocheranno in Brasile. I Mondiali quelli veri intendo.
Il Campionato del mondo del Brasile esiste. Questo sì. E il Brasile rappresenterà un palcoscenico mediatico assolutamente verosimile. Ideato, costruito, e assemblato, sulle impalcature virtuali di eventi paralleli, il Campionato Brasiliano si farà.
L’erba, sintetizzata e selezionata da menti altrettanto sintetiche, resisterà all’onda impazzita di jingles e mascottes. La pubblicità si impossesserà di ogni respiro. Il Pubblico si impossesserà della Pubblicità. L’Anonimo Privato si impossesserà del pubblico. E lui solo, l’anonimo privato, si ciberà delle onde azionarie irradiate dal Paese delle Meraviglie. Ogni esecrabile sospetto, ogni inudibile credo, ogni invisibile pensiero, ogni insondabile emozione, tutto, tutto, sarà vivisezionato, parcellizzato, frammentato, masticato, e digerito. E finalmente espulso, per le contorte vie dell’evidenza giornalistica.
E noi vibreremo, come mansueti ghirigori di fumo, attratti da dimenticate pulsioni maniacali e assuefatti al rullare ritmico di consonanze primordiali. Ci accasceremo disfatti nella catarsi della sconfitta, o salteremo, energici ed energetici come non mai, nell’esplosione di una vittoria insperata e dispettosa. Il dramma psicocinetico dell’epopea calcistica si consumerà lento, sulle braci di un’ara sacrificale, lunga 30 giorni e tangibile, come 50 pollici di altissima definizione.
Loro, i conturbanti eroi dell’era Twitter, indosseranno morbide scarpe infrangibili e calceranno l’eleganza dei gesti oltre i confini euclidei dei 90 minuti.
Tutto questo accadrà. E lascerà ricordi palpabili come la parabola eterna della vergine-palla il volo senza peso e senza sesso dell’angelo calciatore.
Detto questo. Concesso questo. Sopportato o supportato tutto questo, eccoci al dunque. Pochi sanno che i veri Mondiali non si giocheranno in Brasile. Questo lo sussurro all’orecchio di chi è attento ai segnali del Momento. Alle scie celesti dell’eterno e vero Movimento.
I veri Mondiali si stanno giocando da quattro anni, ai quattro canti del Mondo.
E i giocatori siamo noi.
La cosa buffa è che nessuno ci ha avvertito. E non c’è nessuno che ci abbia spiegato le regole.
Giochiamo tutti i giorni. Noi tutti, tutti noi: abbandonati e stanchi, irascibili e incompresi, deboli e incapaci. Tutti noi, poco artisti e poco atleti, molto poco allenati a trattenere un solo, unico, disperato pensiero.
Io sono stato eliminato qualche mese fa – peccato! – quando, una sera, mi sono attardato al computer, dimenticandomi di respirare il tramonto che mi stava aggredendo.
Pago ancora. Per quello che è stato.
Un errore senza prezzo.
Nello sport più arrivi in alto più e più è difficile gestire le situazioni. I grandi atleti chiedono la massima professionalità e discrezione, collaborano con poche persone e di fiducia. Si deve saper dire la parola giusta e non dire quella sbagliata; esserci quando serve e diventare invisibili quando è ora. È l’errore di molti colleghi, pur bravi: durano poco perchè non sanno dominare l’aspetto emotivo e parlano a sproposito”.
Devi saper riconoscere le occasioni: “devi”, non puoi sbagliare. Il tempo, il luogo, quel tempo, quel luogo…“in certi ambienti” si annusano. “Bisogna avere la capacità di starci, in certi ambienti”.
Fabrizio Borra è uno dei fisioterapisti più stimati in Italia, da venticinque anni: “arrivare in alto è dura, ma io sono stato fortunato e ho fatto in fretta. Il problema è rimanerci: basta un errorino per precipitare. Ci si deve aggiornare continuamente”. Fabrizio è un osservatore, uno che guarda da tutta la vita: suo fratello maggiore già fisioterapista, poi gli americani innovatori, i cestisti di Forlì, i ciclisti in salita, le Ferrari in giro per il mondo. Quello che impara sperimenta, su muscoli d’oro: quelli del cecchino Bob McAdoo, di Pantani, Cipollini, Basso, Fernando Alonso, Fiorello, Jovanotti. Dal 1988 studia i campionissimi:
Gli atleti devono esasperare il loro corpo, farlo rendere al 110%. Devono andare al limite di loro stessi: è un obbligo. È lì che li accompagno.
Fabrizio, “Fisiology” è un centro frequentato da persone normali e olimpionici. Come conciliate esperienze così lontane?
Abbiamo un presupposto tecnico preciso: il metodo per trattare il mio vicino di casa e l’atleta professionista è lo stesso. Cambia il dosaggio. La persona normale parte da un basso grado di disabilità, dovuto ad una patologia, e deve recuperare la capacità di svolgere le sue attività quotidiane; l’atleta vuole guarire e migliorare la sua performance. Il razionale è uno solo: sono diversi gli obiettivi. Per portare in alto l’atleta devo trovare soluzioni innovative: se l’esperimento funziona ho una nuova tecnica con cui aiutare gli altri pazienti. In questo modo sono sempre stimolato a fare ricerca e offro trattamenti d’avanguardia.
Concretamente, di che cosa ti occupi?
Sono un fisioterapista, non un preparatore, non un medico. Nel mio centro ci sono questi profili, ma ognuno fa la sua parte: io curo la salute a livello fisioterapico. A seconda delle circostanze devo declinare il mio ruolo, ma la premessa è comune: un atleta è come una macchina da corsa (una persona comune è un’auto stradale) e gli aspetti strutturale, scheletrico, muscolare, tendineo costituiscono la meccanica della macchina; la prestazione è il motore; la testa è la centralina, su cui posso agire in due modi: neuromuscolare e psicomotivo. Posso seguire la macchina a 360°, com’era con Pantani ed ora è per Alonso; oppure valutare solo la carrozzeria e il bilanciamento: per i ciclisti, ad esempio, mi limito alla biomeccanica posturofunzionale. Poi tocca al preparatore atletico agire sulla performance.
La tua giornata tipo?
La mia base è “Fisiology” a Forlì e viaggio per alcuni pazienti. Pantani e Alonso mi chiedevano un impegno di 250 giorni l’anno: un ritmo troppo intenso, per me, oggi! Proprio per questo ci dividiamo i compiti con suo cognato Edoardo Bendinelli.
Segui Alonso da dodici anni. Com’è cresciuto?
Aveva diciott’anni quando ci siamo conosciuti: era un ragazzino. Ha capito che il rapporto poteva svolgersi non solo sul piano fisioterapico ma anche su quello umano. Abbiamo creato un’équipe di specialisti con cui interagire a seconda delle necessità: gli atleti come lui preferiscono relazionarsi con un unico riferimento. Il legame si è stretto e alla stima si è aggiunta l’amicizia.
Come si allena un pilota di Formula 1?
Ha due esigenze: innanzitutto deve avere tutte le capacità di base portate verso l’alto, come la forza e la capacità cardiovascolare. È facile con Fernando: gli piacciono tutti gli sport e non sta mai fermo. Ma un atleta come lui ha sempre bisogno dello stimolo della competizione: con gli altri o con se stesso, dev’esserci la componente agonistica. Gioca a calcio, nuota, corre e va tanto in bici (15mila km all’anno): gli è molto utile il ciclismo perché impara a gestirsi (deve tornare a casa: anche dopo 130 km!) e le strutture sono in scarico. La seconda caratteristica da affinare è la capacità di controllo neuromuscolare per combattere la forza centrifuga. Le monoposto sono pezzi di carbonio lanciati sull’asfalto: le sollecitazioni sulla colonna sono spaventose e bisogna investire molte energie sulla funzionalità globale e sull’addestramento delle abilità.
E le sollecitazioni al collo sono ancora un problema?
Le macchine sono cambiate rispetto a cinque anni fa, quando faticavano soprattutto le braccia e il collo. Oggi è cambiata l’aderenza e grazie all’idroguida il volante si governa con un dito. I nuovi mezzi richiedono una straordinaria lucidità mentale: bisogna memorizzare gli schemi e abbassare i tempi di reazione. Non c’è tempo per pensare in Formula 1, quando lo fai è già tardi. Le manovre vanno sottocorticalizzate, cioè l’impulso deve essere immagazzinato nella parte più profonda del cervello perchè diventi un automatismo: l’unico sistema è ripetere i gesti sui simulatori.
Anche il ciclismo ti ha dato soddisfazioni.
Sono stati da me molti dei migliori degli ultimi anni: Cipollini, Basso, Bettini, Cancellara, Bennati… Ma l’esperienza più forte della mia vita ha un nome ed un cognome: Marco Pantani.
18 ottobre 1995, Milano-Torino: frattura di tibia e perone frammentaria esposta.
Fu la mia più grande scuola. Lo rieducai grazie a quanto appreso in America e ad un delicato lavoro multidisciplinare: coordinai una squadra di esperti per rimetterlo in sella. Tornammo in alto, all’apice del successo: vinse il Giro e il Tour, ci sembrò di sfiorare la punta del cielo. Poi il crollo: aveva toccato il fondo. Non ci fu modo di aiutarlo, la crisi lo portò all’autodistruzione. In dieci anni accompagnare il tuo atleta dal cielo al cimitero: sono cose che ti porterai dentro. È stata una lezione durissima.
Le tue mani hanno massaggiato i più forti. Che cosa c’è nel corpo di un campione?
Un fisico allenato dall’infanzia e poi testa e talento. Un buon atleta ha un buon talento e una buona testa. Un campione ha un grande talento e una grandissima testa.
Che cosa pensi dei mental coach?
Secondo me un vero campione non ne ha bisogno: non può essere dipendente – a livello mentale – di un altro. È giusto che i giovani siano aiutati a crescere in fretta anche nella psicologia e nell’emotività, ma ad un certo punto bisogna saper fare da sé: il campione ce l’ha dentro, il mental coach. Non ha bisogno di sostituirlo ogni due anni… In alcuni momenti specifici può farsi aiutare, ma dev’essere padrone di se stesso: sarà la sua determinazione a fare la differenza.
I tuoi “numeri uno” non sono solo atleti, ma anche uomini dello spettacolo. Perché vengono da te?
Ho cominciato con Jovanotti nel ’97, mi chiese qualche dritta per preparare la sua tournée. I suoi concerti sono molto fisici, si muove come un matto, le date sono vicine e non ha un attimo di tregua: doveva imparare a recuperare in fretta. La collaborazione continua ancora oggi. Fu un amico comune a presentarmi Fiorello, che non riusciva a superare un dolore alla spalla. Anche con lui la relazione si è consolidata: su Twitter mi aveva definito come il suo “ansiolitico”.
Come sei arrivato fin qui?
Ho iniziato per colpa del mio ginocchio: ero stato operato ma non riuscivo a riprendermi. Mio fratello aveva una palestra a Brescia (la mia città) e andavo da lui per la rieducazione: volevo capire perché il ginocchio non funzionasse. Dovevo ancora finire le superiori. Mi appassionai e decisi di iscrivermi al corso di massiofisioterapia. Mio fratello mi permise di fare pratica mentre studiavo e questo mi diede una marcia in più.
Mister Maifredi ti volle subito al suo fianco.
Dopo poco. La mia fortuna fu che a quel tempo il Brescia aveva due squadre (calcio e basket) nelle massime serie. Ebbi da subito contatti con i rispettivi massaggiatori e imparai tantissimo. Poi Maifredi mi prese “in custodia” per alcune fortunate avventure: tra queste le stagioni con Ospitaletto (C2) e Bologna (B). Anche un amico che correva in macchina, Alex Caffi, mi volle con sé quando approdò in Formula 1. Intanto continuavo con la pratica da mio fratello ed era nato mio figlio: mia moglie mi voleva a casa, viaggiavo tropp
Il segreto era cambiare casa!
Mi chiamarono a Forlì, nel 1990. Era arrivato dall’America il giocatore più forte del momento, veniva a chiudere la carriera da noi e voleva un terapista: era Bob McAdoo, stella dei Lakers, che avrebbe dato una svolta alla mia formazione. Mi diceva: “Tu sei un buon trainer – l’equivalente della mia figura in NBA- ma devi andare in America!”.
Sei salito su un aereo?
Non me lo potevo permettere! A fine anno mi regalò lui i biglietti per Los Angeles, e una spinta per un tirocinio con i Lakers. Con il suo nome si aprirono le porte, ma c’era spazio solo per un apprendista-tuttofare: ci andai d’estate, per la Summer League. Al mattino stavo in clinica, il resto della giornata con la squadra. Portavo le borracce, gli asciugamani, pulivo i parquet. Tornai per diverse estati, nel frattempo era nata un’amicizia straordinaria con Gary Vitti, il trainer dei Lakers (ormai, dopo vent’anni, è diventato il mio “fratello” americano) ed era lui ad ospitarmi.
Gli americani erano più bravi?
Nella traumatologia erano e sono tra i migliori al mondo. Allora poi i loro libri non si trovavano in Italia e venivano tradotti dopo tre o quattro anni, quando loro avevano già inventato nuove tecniche. L’unico modo per essere aggiornati, prima di Internet, era andarci.
In quello spogliatoio c’era gente tipo Magic Johnson…
Era il posto più bello del mondo per uno del mio mestiere. Pur di rimanerci ero disposto a tutto. Non mi sono mai pesati i lavori umili, non mi sono mai vergognato. Oggi i neolaureati sono tutti dottori, nessuno ha voglia di sporcarsi le mani: ma la gavetta è un passaggio fondamentale!
A che punto è la fisioterapia in Italia?
All’estero ci sono una cultura e un know how che noi ci sogniamo: qui siamo fermi ai protocolli. Ai convegni io spiego il razionale, non l’esercizio: invece i rieducatori italiani vogliono gli esercizi. Ecco il nostro limite: l’esercizio si misura sul paziente, non esistono protocolli. Nella mia ottica il paziente ha un percorso soggettivo: rispetto i tempi che mi dà il chirurgo e divido il percorso in fasi, come delle tappe. Passo alla successiva solo quando si è raggiunto il traguardo della precedente. Controllo le risposte del paziente e formulo gli esercizi ad hoc: devo capire ogni giorno di che cosa ha bisogno. Oggi pochi hanno voglia di pensare…
Anche tu fai parte del Team Technogym Ability Training, insieme al dott. Massarini. Dove volete arrivare?
Siamo un gruppo di professionisti che si sono tolti le loro soddisfazioni e ora vogliono provare a cambiare le cose, con una rivoluzione culturale: noi crediamo il movimento sia costituito dalle abilità di base, quindi ogni allenamento deve essere strutturato per migliorarle. Dopo un infortunio è necessario recuperarle tutte. Anche Massarini ne è convinto – del resto collaboriamo da una vita – e il metodo Vitalia è lo stesso che uso io. La mia rieducazione è più esercizio che lettino (per il 90% dei colleghi essa è esclusivamente lettino): l’esercizio è la soluzione alla maggior parte dei problemi!
Chi di noi svolge lavori “di concetto” ne trascorre molte, forse troppe. Comunque sia, è meglio che questa postura non crei troppi danni al nostro fisico.
È infatti alle troppe ore dietro la scrivania che si imputa la maggior parte dei mal di schiena che affligge la popolazione.
Quando siamo seduti infatti, il tratto lombare della colonna vertebrale si flette leggermente in avanti e i dischi intervertebrali, quei distanziali interposti tra un disco e l’altro con la funzione di ammortizzare i carichi, si trovano sottoposti ad una pressione che è di 2 volte superiore a quella che si ha in posizione eretta. In più, se sediamo abbandonati su una sedia, la nostra muscolatura addominale e lombare sarà inattiva per molte ore al giorno e piano piano perderà la sua forza. Ecco perché, quando ci alziamo dalla scrivania dopo ore di lavoro, spesso avvertiamo indolenzimento nella parte bassa della schiena.
La più semplice alternativa sarà quella di scegliere una seduta “instabile”che ci obblighi a fare dei minimi movimenti per mantenere l’equilibrio, coinvolgendo in tale modo la muscolatura addominale e lombare e preservando la normale curva del rachide lombare (lordosi).
Cosa c’è di più semplice di una palla?
L’equilibrio instabile di una sfera ci costringerà ad un’attivazione continua della muscolatura che mobilizza le vertebre con piccoli aggiustamenti della posizione.
In tal modo non si mantiene il carico sui dischi per tempi troppo lunghi e i muscoli, grazie a continui accorciamenti-allungamenti, mantengono un buon flusso di sangue.
Buttiamo via la vecchia sedia da scrivania e accomodiamoci su una bella palla, scegliamola però della misura giusta: da seduti, con i piedi poggiati a terra, le nostre anche e le nostre ginocchia dovranno essere flesse ad angolo retto.
Buona seduta a tutti!
E non dimenticate che la palla è anche un ottimo attrezzo per esercizi sportivi!