Vitalia è Claudia

Nome: Claudia
Team Vitalia dal: 2007
Formazione: Laurea in Scienze Motorie, Master in Traumatologia e Riabilitazione Sportiva

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Dal mare della Sardegna alla nebbia del Piemonte. Che cosa ti ha portata qui?

Dopo la laurea sono venuta a Torino per il Master. Ero preoccupata: il mio percorso sembrava chiudermi tutte le strade. Rimanevano solo la palestra e la scuola che sono ambiti un po’ limitati rispetto all’iter degli studi. Non mi vedevo in un ambiente chiuso, al lavoro su sport individuali (ho giocato a lungo a pallavolo). Poi il mio interesse è variato più verso la riabilitazione sportiva.

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E hai conosciuto Massimo.

Cercava laureati in Scienze motorie e mi ha convinta subito: credeva nella mia formazione. Prima di cominciare con Vitalia sono tornata nella mia Sardegna per un’esperienza al Forte Village. Dopo l’estate ho iniziato qui in via della Rocca.

Sotto le ali di Eva…

Mi ha aiutata tanto. Mi ha insegnato soprattutto a rapportarmi con le persone: prima di definire un programma bisogna ascoltarle, prima dell’esercizio capirle. Solo così si ottengono risultati. La cosa più difficile è proprio creare empatia con il paziente: lui deve avere fiducia in me perché sto lavorando con la sua salute!

Come fai con gli sportivi infortunati?

 Il primo step è rincuorarlo: nella vita di uno sportivo l’infortunio va accettato, è inevitabile! Insomma affronto la situazione innanzitutto dal punto di vista psicologico: spesso la persona è demoralizzata e non vede l’ora di recuperare. Ha interrotto i suoi sogni, non solo la sua attività: per questo si lamenta (in più c’è il dolore fisico) e si innervosisce. Serve tanta pazienza, ma è il bello del mio lavoro: ho avuto un sacco di soddisfazioni. Quando un paziente mi dice “sono tornato a sciare” è una vittoria!

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Nella tua carriera di pallavolista hai avuto qualche stop?

Uno solo per fortuna. Mi sono dovuta fermare per una brutta distorsione alla caviglia con rottura del legamento. Mi ha segnata molto perché è successo in un anno decisivo: stavo giocando bene e in una categoria importante.

Ti alleni ancora?

Ho smesso per ragioni logistiche. Poi mi sono dedicata al beach volley indoor, adesso al tennis.

Com’è cambiata Vitalia in questi anni?

Quando sono arrivata era appena nata e Massimo stesso voleva sviluppare la sua idea. La mia passione per la traumatologia e riabilitazione ha fatto sì che diventassimo questo: un centro dove si guarda l’individuo a 360 gradi. Oggi non ci occupiamo solo di anziani e ginnastica posturale, ma anche di sportivi, diabetici, pazienti con disturbi alimentari: proviamo a far vivere meglio qualsiasi persona.

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Diario di bordo (pista)

Qualche settimana fa vi abbiamo presentato la Guida Alpina Giorgio Villosio, con cui Vitalia collabora per la preparazione degli sci-alpinisti. Questa sinergia ci consente di offrire un servizio integrato che, partendo da una valutazione fisiologica delle capacità individuali, arriva alle esercitazioni pratiche in montagna. Il tutto, perfettamente calibrato sulle condizioni fisiche e tecniche della persona. Giorgio infatti è un professionista della montagna a 360°, esperto di neve, rocce e ghiaccio: i suoi corsi sono aperti a tutti, principianti e professionisti e per i più coraggiosi organizza anche spedizioni sui “giganti del mondo” (dalla Turchia all’Equador passando per il Kilimanjaro: vulcani e montagne dai 4000 m in su per lui sono pane quotidiano).

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Di seguito il resoconto della sua ultima uscita (trovate gli altri qui): se non ambite all’Everest ma più semplicemente volete divertirvi in sicurezza… chiedetegli compagnia!

11 gennaio. Scialpinismo: Terra Nera.

Gita nel vallone di Thures, partendo da Busson siamo saliti prima alla Dormillouse e poi per cresta abbiamo proseguito fino al Terra Nera. Discesa nel vallone e rientro a Thures. Il percorso è tutto ben innevato e nonostante la parte alta del Terra Nera abbia preso vento nei giorni scorsi, facendo attenzione non si tocca una pietra. Dopo una settimana di caldo anomalo la qualità della neve è sicuramente peggiorata, però nel complesso neve sempre sciabile, in alto alternanza di crosta dura da vento e farina pressata, nel bosco farina a tratti un po’ pesante.

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Per informazioni sulle uscite con Giorgio visitate il suo sito.

[message type=”warning”] Attenzione: lo sci-alpinismo non si improvvisa! Bisogna conoscere la disciplina e la montagna, ma soprattutto essere allenati! Qui potete trovare qualche spunto, contattateci per un programma personalizzato! [/message]

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La capacità di stare

Nello sport più arrivi in alto più e più è difficile gestire le situazioni. I grandi atleti chiedono la massima professionalità e discrezione, collaborano con poche persone e di fiducia. Si deve saper dire la parola giusta e non dire quella sbagliata; esserci quando serve e diventare invisibili quando è ora. È l’errore di molti colleghi, pur bravi: durano poco perchè non sanno dominare l’aspetto emotivo e parlano a sproposito”.

Devi saper riconoscere le occasioni: “devi”, non puoi sbagliare. Il tempo, il luogo, quel tempo, quel luogo…“in certi ambienti” si annusano. “Bisogna avere la capacità di starci, in certi ambienti”.

Fabrizio Borra

Fabrizio Borra è uno dei fisioterapisti più stimati in Italia, da venticinque anni: “arrivare in alto è dura, ma io sono stato fortunato e ho fatto in fretta. Il problema è rimanerci: basta un errorino per precipitare. Ci si deve aggiornare continuamente”. Fabrizio è un osservatore, uno che guarda da tutta la vita: suo fratello maggiore già fisioterapista, poi gli americani innovatori, i cestisti di Forlì, i ciclisti in salita, le Ferrari in giro per il mondo. Quello che impara sperimenta, su muscoli d’oro: quelli del cecchino Bob McAdoo, di Pantani, Cipollini, Basso, Fernando Alonso, Fiorello, Jovanotti. Dal 1988 studia i campionissimi:

Gli atleti devono esasperare il loro corpo, farlo rendere al 110%. Devono andare al limite di loro stessi: è un obbligo. È lì che li accompagno.

Fabrizio, “Fisiology” è un centro frequentato da persone normali e olimpionici. Come conciliate esperienze così lontane?

Abbiamo un presupposto tecnico preciso: il metodo per trattare il mio vicino di casa e l’atleta professionista è lo stesso. Cambia il dosaggio. La persona normale parte da un basso grado di disabilità, dovuto ad una patologia, e deve recuperare la capacità di svolgere le sue attività quotidiane; l’atleta vuole guarire e migliorare la sua performance. Il razionale è uno solo: sono diversi gli obiettivi. Per portare in alto l’atleta devo trovare soluzioni innovative: se l’esperimento funziona ho una nuova tecnica con cui aiutare gli altri pazienti. In questo modo sono sempre stimolato a fare ricerca e offro trattamenti d’avanguardia.

Concretamente, di che cosa ti occupi?

Sono un fisioterapista, non un preparatore, non un medico. Nel mio centro ci sono questi profili, ma ognuno fa la sua parte: io curo la salute a livello fisioterapico. A seconda delle circostanze devo declinare il mio ruolo, ma la premessa è comune: un atleta è come una macchina da corsa (una persona comune è un’auto stradale) e gli aspetti strutturale, scheletrico, muscolare, tendineo costituiscono la meccanica della macchina; la prestazione è il motore; la testa è la centralina, su cui posso agire in due modi: neuromuscolare e psicomotivo. Posso seguire la macchina a 360°, com’era con Pantani ed ora è per Alonso; oppure valutare solo la carrozzeria e il bilanciamento: per i ciclisti, ad esempio, mi limito alla biomeccanica posturofunzionale. Poi tocca al preparatore atletico agire sulla performance.

La tua giornata tipo?

La mia base è “Fisiology” a Forlì e viaggio per alcuni pazienti. Pantani e Alonso mi chiedevano un impegno di 250 giorni l’anno: un ritmo troppo intenso, per me, oggi! Proprio per questo ci dividiamo i compiti con suo cognato Edoardo Bendinelli.

Fabrizio con Alonso

Segui Alonso da dodici anni. Com’è cresciuto?

Aveva diciott’anni quando ci siamo conosciuti: era un ragazzino. Ha capito che il rapporto poteva svolgersi non solo sul piano fisioterapico ma anche su quello umano. Abbiamo creato un’équipe di specialisti con cui interagire a seconda delle necessità: gli atleti come lui preferiscono relazionarsi con un unico riferimento. Il legame si è stretto e alla stima si è aggiunta l’amicizia.

Come si allena un pilota di Formula 1?

Ha due esigenze: innanzitutto deve avere tutte le capacità di base portate verso l’alto, come la forza e la capacità cardiovascolare. È facile con Fernando: gli piacciono tutti gli sport e non sta mai fermo. Ma un atleta come lui ha sempre bisogno dello stimolo della competizione: con gli altri o con se stesso, dev’esserci la componente agonistica. Gioca a calcio, nuota, corre e va tanto in bici (15mila km all’anno): gli è molto utile il ciclismo perché impara a gestirsi (deve tornare a casa: anche dopo 130 km!) e le strutture sono in scarico. La seconda caratteristica da affinare è la capacità di controllo neuromuscolare per combattere la forza centrifuga. Le monoposto sono pezzi di carbonio lanciati sull’asfalto: le sollecitazioni sulla colonna sono spaventose e bisogna investire molte energie sulla funzionalità globale e sull’addestramento delle abilità.

E le sollecitazioni al collo sono ancora un problema?

Le macchine sono cambiate rispetto a cinque anni fa, quando faticavano soprattutto le braccia e il collo. Oggi è cambiata l’aderenza e grazie all’idroguida il volante si governa con un dito. I nuovi mezzi richiedono una straordinaria lucidità mentale: bisogna memorizzare gli schemi e abbassare i tempi di reazione. Non c’è tempo per pensare in Formula 1, quando lo fai è già tardi. Le manovre vanno sottocorticalizzate, cioè l’impulso deve essere immagazzinato nella parte più profonda del cervello perchè diventi un automatismo: l’unico sistema è ripetere i gesti sui simulatori.

Anche il ciclismo ti ha dato soddisfazioni.

Sono stati da me molti dei migliori degli ultimi anni: Cipollini, Basso, Bettini, Cancellara, Bennati… Ma l’esperienza più forte della mia vita ha un nome ed un cognome: Marco Pantani.

Marco Pantani

18 ottobre 1995, Milano-Torino: frattura di tibia e perone frammentaria esposta.

Fu la mia più grande scuola. Lo rieducai grazie a quanto appreso in America e ad un delicato lavoro multidisciplinare: coordinai una squadra di esperti per rimetterlo in sella. Tornammo in alto, all’apice del successo: vinse il Giro e il Tour, ci sembrò di sfiorare la punta del cielo. Poi il crollo: aveva toccato il fondo. Non ci fu modo di aiutarlo, la crisi lo portò all’autodistruzione. In dieci anni accompagnare il tuo atleta dal cielo al cimitero: sono cose che ti porterai dentro.  È stata una lezione durissima.

Le tue mani hanno massaggiato i più forti. Che cosa c’è nel corpo di un campione?

Un fisico allenato dall’infanzia e poi testa e talento. Un buon atleta ha un buon talento e una buona testa. Un campione ha un grande talento e una grandissima testa.

Che cosa pensi dei mental coach?

Secondo me un vero campione non ne ha bisogno: non può essere dipendente – a livello mentale – di un altro.  È giusto che i giovani siano aiutati a crescere in fretta anche nella psicologia e nell’emotività, ma ad un certo punto bisogna saper fare da sé: il campione ce l’ha dentro, il mental coach. Non ha bisogno di sostituirlo ogni due anni… In alcuni momenti specifici può farsi aiutare, ma dev’essere padrone di se stesso: sarà la sua determinazione a fare la differenza.

I tuoi “numeri uno” non sono solo atleti, ma anche uomini dello spettacolo. Perché vengono da te?

Ho cominciato con Jovanotti nel ’97, mi chiese qualche dritta per preparare la sua tournée. I suoi concerti sono molto fisici, si muove come un matto, le date sono vicine e non ha un attimo di tregua: doveva imparare a recuperare in fretta. La collaborazione continua ancora oggi. Fu un amico comune a presentarmi Fiorello, che non riusciva a superare un dolore alla spalla. Anche con lui la relazione si è consolidata: su Twitter mi aveva definito come il suo “ansiolitico”.

Jovanotti scatenato sul palco

Come sei arrivato fin qui?

Ho iniziato per colpa del mio ginocchio: ero stato operato ma non riuscivo a riprendermi. Mio fratello aveva una palestra a Brescia (la mia città) e andavo da lui per la rieducazione: volevo capire perché il ginocchio non funzionasse. Dovevo ancora finire le superiori. Mi appassionai e decisi di iscrivermi al corso di massiofisioterapia. Mio fratello mi permise di fare pratica mentre studiavo e questo mi diede una marcia in più.

Mister Maifredi ti volle subito al suo fianco.

Dopo poco. La mia fortuna fu che a quel tempo il Brescia aveva due squadre (calcio e basket) nelle massime serie. Ebbi da subito contatti con i rispettivi massaggiatori e imparai tantissimo. Poi Maifredi mi prese “in custodia” per alcune fortunate avventure: tra queste le stagioni con Ospitaletto (C2) e Bologna (B). Anche un amico che correva in macchina, Alex Caffi, mi volle con sé quando approdò in Formula 1. Intanto continuavo con la pratica da mio fratello ed era nato mio figlio: mia moglie mi voleva a casa, viaggiavo tropp

Il segreto era cambiare casa!

Mi chiamarono a Forlì, nel 1990. Era arrivato dall’America il giocatore più forte del momento, veniva a chiudere la carriera da noi e voleva un terapista: era Bob McAdoo, stella dei Lakers, che avrebbe dato una svolta alla mia formazione. Mi diceva: “Tu sei un buon trainer – l’equivalente della mia figura in NBA- ma devi andare in America!”.

Sei salito su un aereo?

Non me lo potevo permettere! A fine anno mi regalò lui i biglietti per Los Angeles, e una spinta per un tirocinio con i Lakers. Con il suo nome si aprirono le porte, ma c’era spazio solo per un apprendista-tuttofare: ci andai d’estate, per la Summer League. Al mattino stavo in clinica, il resto della giornata con la squadra. Portavo le borracce, gli asciugamani, pulivo i parquet. Tornai per diverse estati, nel frattempo era nata un’amicizia straordinaria con Gary Vitti, il trainer dei Lakers (ormai, dopo vent’anni, è diventato il mio “fratello” americano) ed era lui ad ospitarmi.

Gary Vitti con Bryant

Gli americani erano più bravi?

Nella traumatologia erano e sono tra i migliori al mondo. Allora poi i loro libri non si trovavano in Italia e venivano tradotti dopo tre o quattro anni, quando loro avevano già inventato nuove tecniche. L’unico modo per essere aggiornati, prima di Internet, era andarci.

In quello spogliatoio c’era gente tipo Magic Johnson…

Era il posto più bello del mondo per uno del mio mestiere. Pur di rimanerci ero disposto a tutto. Non mi sono mai pesati i lavori umili, non mi sono mai vergognato. Oggi i neolaureati sono tutti dottori, nessuno ha voglia di sporcarsi le mani: ma la gavetta è un passaggio fondamentale!

A che punto è la fisioterapia in Italia?

All’estero ci sono una cultura e un know how che noi ci sogniamo: qui siamo fermi ai protocolli. Ai convegni io spiego il razionale, non l’esercizio: invece i rieducatori italiani vogliono gli esercizi. Ecco il nostro limite: l’esercizio si misura sul paziente, non esistono protocolli. Nella mia ottica il paziente ha un percorso soggettivo: rispetto i tempi che mi dà il chirurgo e divido il percorso in fasi, come delle tappe. Passo alla successiva solo quando si è raggiunto il traguardo della precedente. Controllo le risposte del paziente e formulo gli esercizi ad hoc: devo capire ogni giorno di che cosa ha bisogno. Oggi pochi hanno voglia di pensare…

Anche tu fai parte del Team Technogym Ability Training, insieme al dott. Massarini. Dove volete arrivare?

Siamo un gruppo di professionisti che si sono tolti le loro soddisfazioni e ora vogliono provare a cambiare le cose, con una rivoluzione culturale: noi crediamo il movimento sia costituito dalle abilità di base, quindi ogni allenamento deve essere strutturato per migliorarle. Dopo un infortunio è necessario recuperarle tutte. Anche Massarini ne è convinto – del resto collaboriamo da una vita – e il metodo Vitalia è lo stesso che uso io. La mia rieducazione è più esercizio che lettino (per il 90% dei colleghi essa è esclusivamente lettino): l’esercizio è la soluzione alla maggior parte dei problemi!

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Muoversi contro il diabete

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Si può non diventare diabetici, si possono prevenire le complicanze del diabete.

Nel 2003 (poi sul Lancet nel 2006) veniva pubblicato uno degli studi scientifici più importanti nell’ambito della prevenzione del diabete di tipo II: il DPS (Finnish diabetes prevention study). 

Il lavoro era basato sui dati di pazienti con rischio di sviluppare NIDDM (“Non insulin dependent diabetes mellitus” o Type II Diabetes), cioè di età 40-64, sovrappeso e con alterazioni della curva glicemica. I risultati dimostrarono che il gruppo che seguiva un programma basato sulla riduzione dell’apporto calorico (basso livello di grassi saturi) e sull’esercizio fisico aveva maggiori possibilità di NON sviluppare la patologia rispetto a coloro che invece assumevano farmaci antidiabetici.

La portata scientifica di questa pubblicazione è stata grandissima ed ha innescato molti altri studi che negli ultimi dieci anni hanno reso inequivocabile l’importanza di uno stile di vita attivo per prevenire e curare il diabete tipo II con positivi impatti anche di tipo economico: curare attraverso l’educazione al movimento ed alla corretta alimentazione fa risparmiare molti soldi rispetto alle cure farmacologiche.

Nel 2005, il prof De Feo ha quantificato tali risparmi in un bellissimo lavoro scientifico pubblicato da Diabetes care concludendo che camminare per 4 km al giorno portava ad un risparmio di 550€ /anno di spesa sanitaria.

Le evidenze mediche sono quindi imponenti, eppure, ancora oggi, il percorso per avviare le persone con diabete ad un programma di esercizio fisico è affidato all’iniziativa personale dei medici e non è inserito nelle prestazioni mediche.

Cosa dovrebbe fare chi vuole migliorare la propria situazione? La risposta scientifica ci viene da un altro studio condotto tra il 2006 ed il 2007 in oltre 20 strutture dislocate sul territorio nazionale. Il protocollo della ricerca prevedeva che i pazienti svolgessero esercizio aerobico al 70% dell’intensità massima per 40-45 min. / 2 volte sett. in associazione ad esercizi di forza muscolare contro resistenza.

Ad un anno di distanza, i risultati hanno dimostrato che i parametri fisiologici dei partecipanti erano sensibilmente migliorati e che il livello medio della glicemia era anch’esso sceso, segno di un migliorato metabolismo delle cellule muscolari.

Ma proviamo a spiegare perché il movimento, sia quello aerobico che quello di forza, è così vantaggioso per il diabetico. In questa patologia, l’insulina -l’ormone che abbassa il livello di zucchero nel sangue – viene normalmente immessa in circolo. Il problema è che le cellule muscolari, dentro le quali dovrebbe essere immagazzinato lo zucchero del sangue, sono insensibili ad essa. Grazie all’esercizio invece, si aumenta la sensibilità della cellula muscolare verso l’insulina e questa può quindi far sì che lo zucchero entri nelle cellule stesse.

Gli effetti positivi dell’esercizio aerobico durano 48-72 h mentre quelli dell’esercizio di forza durano poche ore ma comunque la sommazione dei due meccanismi provoca miglioramenti stabili nel tempo.

Buon esercizio a tutti.

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“Ho imparato ad allenarmi”

[message type=”info”] Speciale Silver Skiff-  Due atleti Vitalia si sono distinti nella “Silver Skiff” di domenica scorsa: la campionessa Cristina Rasario, già plurimedagliata ai “World Master Games”, che ha vinto ancora una volta, e il nazionale Giorgio Tuccinardi. Li abbiamo incontrati e li festeggiamo con questo speciale. Di seguito l’intervista a Giorgio, che alleniamo da quattro anni, e qui la chiacchierata con Cristina di qualche mese fa. Siamo fieri di voi! [/message]

“Giorno dopo giorno mi accorgevo di stare meglio. Quando credi in quello che fai vieni fuori alla grande da tutte le situazioni”. Polonia, Campionati del Mondo 2009: Giorgio si blocca in allenamento. Resiste grazie alle iniezioni di antidolorifico; concluse le gare il referto dei medici è chiaro: protusione e lesione del disco. Stop alle gare. Via con il recupero.

Giorgio, come si infortuna un canottiere?

Ogni settimana ci alleniamo con i pesi tre o quattro volte e corriamo 40 o 50 km, oltre al lavoro in barca. Siamo inevitabilmente soggetti a traumi alla schiena anche gravi (tipo ernie) e strappi. Bisogna essere seguiti molto bene dal punto di vista fisioterapico, avere un buon massaggiatore e fare il giusto lavoro a terra per prevenire i dolori.

Che cosa ti è successo nel 2009?

Non sono uno portato all’allungamento e allora lo curavo pochissimo. Seguivo dei programmi che lo prevedevano appena. Dopo il problema in Polonia sono andato dal dott. Massarini e insieme abbiamo cercato una soluzione: gli ho spiegato come funziona il canottaggio e lui mi ha insegnato la ginnastica posturale.

E i tuoi pregiudizi sullo stretching?

Sono guarito e sono diventato più veloce in barca: ho dovuto abbandonarli! All’inizio è stata dura, perché non è facile avere fiducia in qualcuno che ti fa fare qualcosa che non ti piace e che non è frequente nel tuo sport. Da Vitalia hanno avuto pazienza, il clima intimo mi ha aiutato e mi sono lasciato andare. Poi ho capito e anche dopo la terapia ho continuato con gli esercizi: non ho mai più avuto disturbi, solo un lieve fastidio nelle scorse settimane, infatti sto intensificando di nuovo l’allungamento.

Perché è importante l’elasticità nel canottaggio?

Perché riduce il rischio di infortuni. Nel nostro sport è fondamentale sapersi mantenere nel tempo: le carriere in barca sono lunghe!

Tu a che punto sei?

Ho ventisette anni, ho iniziato a remare quando la mia famiglia si è trasferita a Torino. Sono cresciuto nella “Canottieri Armida” di cui sono socio onorario dal 2006. E’ la mia casa: lì c’è il mio allenatore principale. Ci torno appena posso: faccio parte del Gruppo Sportivo Forestale e dal 2003 della Nazionale Italiana. Mi alleno nei centri federali di Piediluco (con gli azzurri) e Sabaudia (con la Forestale).

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Com’è la tua giornata tipo?

Mi alleno due volte: due ore alle nove del mattino, poi di nuovo dalle cinque alle otto di sera.

Sei uno studente?

Sì! Anche se non è stato facile coordinare le due attività mi sto per laureare in Scienze della Comunicazione a Torino. Con un po’ di ritardo…

Quali sono stati i tuoi migliori risultati?

Ho partecipato a tredici Campionati del Mondo, con alti e bassi. Il primo ad Amsterdam è stato una sorpresa: ho vinto il mondiale con il due senza con un ragazzo dell’ “Armida”. L’anno dopo a Eton ho vinto l’oro sull’otto. A Monaco nel 2007 ho vinto il bronzo, sempre con l’otto. Nel 2012 sono arrivato secondo alle Universiadi. Quest’estate di nuovo secondo agli Europei. E poi sono molto soddisfatto dei Mondiali in Corea: noi azzurri abbiamo sfiorato la finale e vinto e la finalina.

Sei già stato alle Olimpiadi?

Non ancora. Le ho sfiorate per due volte. Mi sto allenando per Rio!

Com’è andata la “Silver Skiff”?

Oltre le aspettative! La stagione è appea ripresa ma i nuovi programmi massacranti (sono cambiati il Presidente e i tecnici della Federazione) stanno dando i loro frutti. Ho migliorato il mio personale perchè la fatica di quest’estate sta pagando.

Com’è il canottaggio in Italia?

Viviamo nella povertà totale. I premi per chi vince i Mondiali possono arrivare al massimo a qualche migliaio di euro. Senza contare che per investire su allenamento e innovazione non ci sono risorse.

Anche la Idem si lamentava…

La Federazione non voleva più darle fiducia e allora lei se n’è andata. L’ha allenata suo marito e ha fatto grandi cose fino a Londra.

Qual era la sua forza?

Lei faceva uno sport molto simile al nostro. In questi anni ho passato alcuni periodi di allenamento a Ravenna con Marcello Emiliani, un amico comune, socio del suo stesso circolo: ci si incontrava spesso. Mi ha sempre impressionato la sua capacità di gestione: portare avanti una famiglia e la canoa a quell’età, a quel livello, significa avere una marcia in più. Bisogna conoscere alla perfezione il proprio corpo e poi sapersi regolare sul quadriennio olimpico: serve un grande coach.

Chi si allena troppo scoppia?

Sempre. Nel nostro sport inizi a vincere quando impari ad allenarti.

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Quali sono i tuoi riferimenti sportivi?

Ebbesen, un atleta danese di 43 anni. Ha partecipato a cinque olimpiadi vincendo sempre una medaglia: tre ori e due argenti. Non muore mai. E poi Castello Amarante, medagliato ad Atene 2004. Quella con lui è stata la mia barca più importante. Mi ha dato qualcosa in più per affrontare le gare: aveva sempre la certezza di fare il risultato, quando doveva farlo.

Qual è la cosa più bella del canottaggio?

La vegetazione, lo stare all’aria aperta: aprire la testa alla natura e pensare alla propria vita. Vedere sempre posti diversi: penso alla Nuova Zelanda, un paesaggio lunare, lo porto nel cuore. Chiuso in casa potrei appassire…

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A New York per cambiare prospettiva

Davide Canavesio, CEO Saet Group, ex Presidente Gruppo Giovani Industriali, anima di Rena, Yes4To, Torino Strategica, imprenditore vulcanico ed esplosivo motore del cambiamento torinese, ci racconta la sua prima maratona di New York. Preparata in due mesi di telefonate con Vitalia nei i ritagli di un’agenda fitta fitta; nel cuore la Grande Mela e una convinzione: le idee hanno bisogno di correre. Ed arrivare al traguardo. Davide Canavesio

Azienda, associazioni, fidanzata, amici. Vivi di corsa o corri da sportivo?

Sono cresciuto giocando a calcio e a tennis, mi piace sciare: in generale ho un ottimo rapporto con la fisicità. Mi sono sempre considerato uno sportivo ma purtroppo il mio lavoro adesso mi lascia pochi spazi per allenarmi: mi è rimasto il golf, che almeno mi costringe a camminare tanto.

Ti piacciono gli sport individuali.

Sì. Sono sempre in mezzo alla gente e nel golf devi stare con te stesso, in silenzio e con concentrazione altissima. Mi aiuta a svuotare la mente e compensare un po’. Come la corsa.

Qual è il tuo percorso di podista?

Ho appena cominciato: lo scorso anno mi sono iscritto alla maratona di NY. Partivo da zero. Mi sono allenato, sono salito su un aereo, l’hanno annullata e sono tornato indietro. Allora mi sono iscritto a quella di Torino e ho concluso i miei primi 42 km in 4h16′. Poco dopo ho smesso di correre e ho riniziato il 2 settembre: ho un appuntamento in sospeso con NY!

Si può preparare una maratona in due mesi?

Non ho velleità agonistiche: la mia unica sfida è arrivare al traguardo. Vorrei capire se posso finirla! E poi godermi la festa: vado con la mia fidanzata e alcuni amici. Sono giorni di riposo e famiglia.

Come ti sei allenato?

Ho passato due mesi di vita religiosa: niente alcool, niente Toscanelli (i miei amati sigari), nutrizione rigorosa. Solo per la maratona si possono fare sacrifici così!

Che sostegno ti ha dato Vitalia?

Con il dott. Massarini abbiamo pensato un piano di sedute da adattare ogni giorno in base ai miei impegni. Mi sono limitato alla corsa perchè non avevo abbastanza tempo per integrarla con la ginnastica. Prima di cominciare mi sono sottoposto a un test del lattato, poi ho corso 3-4 volte alla settimana tra gli 8 e i 12 km in maniera diversa. Nei week end mi sono tenuto i lunghi, in una serie crescente da 12 a 30 km: 12, 16, 20, 26, due volte i 28, poi i 30 due settimane fa. Da allora la fase di scarico, con qualche sgambata ma nulla di più. Il dott. Massarini ha seguito i miei progressi grazie alla piattaforma Garmin Connect.

Cioè?

Dopo ogni corsa caricavo i dati del mio Garmin sul mio profilo e li condividevo con Massarini. Così lui poteva analizzarli e modificare il programma ad hoc. E’ nata un’ottima collaborazione: ci siamo sentiti al telefono quasi quotidianamente, senza bisogno di incontrarci!

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Che cosa farai da lunedì?

Mi riprometto di continuare a correre!

Ti sei occupato di giovani per l’Unione Industriale e continui a farlo in altre realtà. Quanto conta lo sport nella formazione di un ragazzo?

Credo che abbia ancora una funzione educativa. E’ fondamentale sia nella crescita sia quando da adulti bisogna imparare a districarsi tra mille cose. Lo sport insegna la disciplina: una marcia in più per i ventenni che oggi sono in difficoltà a causa della crisi. E poi non è solo svago, è un’occasione per cambiare prospettiva: soprattutto nei momenti complicati trovare quell’ora per stare in pace con se stessi serve a liberare la testa…

Torino sarà capitale dello sport nel 2015. Da imprenditore, che cosa vorresti per la tua città?

Torino ha vissuto i fasti con le Olimpiadi, ma adesso bisogna dare continuità. Non bastano i singoli eventi: bisogna costruire un circuito di iniziative, un “sistema sport” che proponga un’offerta sempre interessante. Vedo che nel settore running qualcosa si muove, ma manca un progetto integrato. Si scelga un filone e si provi a svilupparlo a 360°, nelle sue varie fasi. Un po’ come si sta facendo con il cinema: dal museo al TFF, alle riprese, alla post produzione: turisti e imprese hanno motivi per visitarci e investire! Guardiamo al modello newyorkese: si sono specializzati nel settore e oggi la maratona muove centinaia di migliaia di persone.

Che ricordo hai di Torino 2006?

Lavoravo all’estero e sono tornato apposta per andare allo stadio alla cerimonia d’apertura dei Giochi. La cosa che mi ha stupito più di tutto? I volontari che ti abbracciano. I volontari delle Olimpiadi sono migliaia di cittadini, tra cui tantissimi giovani, che si impegnano gratis per un progetto. Che bello vedere una cittadinanza attiva!

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Meglio un chilo in più di un allenamento in meno

Forse è il momento di sfatare il luogo comune del “magro è sano”.

Lo studio condotto da Steve Blair, il più illustre epidemiologo di questi anni, su migliaia di soggetti ha dimostrato l’importanza di avere un buon livello di forma fisica per evitare di incorrere in malattie cardiovascolari, ortopediche, metaboliche oltre a diverse forme di tumore.

L’efficienza aerobica, in particolare, è statisticamente più importante del grasso corporeo o di valori di pressione elevati rispetto a tutte le cause di morte.

Che cosa significa?

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Semplicemente che è più a rischio una persona magra e sedentaria di una persona con qualche chilo in più ma che pratichi regolarmente esercizio aerobico e che quindi abbia un buon livello di fitness.

Sicuramente questo messaggio non deve giustificare gli eccessi a tavola, ma deve piuttosto enfatizzare il ruolo protettivo del movimento per moltissime patologie che si stanno diffondendo grazie anche all’invecchiamento della popolazione. Del resto le evidenze dell’efficacia terapeutica dell’esercizio aerobico e di rinforzo muscolare nel diabete di Tipo II, nel tumore al seno e nell’osteoporosi sono ormai conclamate.

Ma i benefici del movimento non si fermano qui e si estendono alla depressione clinica ove è dimostrato che camminare 180 minuti/settimana di buon passo riduce la sintomatologia clinica nel 45% dei pazienti. Gli esempi potrebbero essere ancora molti e toccare patologie come l’insufficienza coronarica e l’ictus.

A livello sociale è importante sottolineare l’impatto economico del farmaco “esercizio fisico”. Si è visto che camminare o andare in palestra comporta un notevole risparmio rispetto all’assunzione di farmaci. In un Paese come l’Italia, dove l’età media sta crescendo costantemente, la prevenzione e la cura delle patologie con l’esercizio possono veramente rappresentare un punto cardine della riduzione della spesa sanitaria.

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Correre leggeri

Bisogna trasmettere che la corsa è una bella cosa. Si deve correre contro se stessi, il cronometro, l’età che avanza… ma con uno spirito un po’ leggero.

Nella fretta degli ultimi preparativi per la “Corsa del Re”, Alessandro Rastello, atleta di successo, direttore di Sport City e presidente di Base Running ASD, racconta il suo podismo.

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Presidente, come si allena la sua squadra?

Con “leggerezza”. Cerchiamo di mantenere alto il profilo tecnico e bassa la pressione agonistica. L’età media dei nostri 500 soci è tra i 40 e 45 anni: non avrebbe senso esasperare la competizione. In ogni occasione ci sforziamo di trasmettere il nostro spirito “soft” e la nostra competenza. Chi si tessera sa che riceverà i consigli che desidera e che se passerà in negozio troverà sempre qualcuno che parla di corsa. Questo clima piace e continuiamo a crescere.

Che cosa prevede la stagione di Base Running?

Gli allenamenti, le gare e vari incontri: ma lasciamo indipendenza totale alle persone. Da noi nessuno è obbligato a fare niente, non chiediamo presenze: ognuno ha l’assoluta libertà di partecipare agli appuntamenti. In questo modo l’aspetto individuale, fondamentale nella corsa, è salvaguardato, ma si aggiunge il piacere di far parte di un gruppo. Si crea appartenenza: alcuni sono davvero affezionati a noi!

Qual è il suo ruolo nel team?

Sono allenatore di triathlon e duathlon dagli anni ’90, quando ho cominciato come istruttore da Sport City. Da molto tempo collaboro con Base Runnig e adesso, insieme ad Alessandro Giannone, gestisco la squadra e l’organizzazione degli eventi. Ci piace mettere a disposizione la nostra esperienza, competenza e passione: le manifestazioni ci lasciano stremati ma soddisfatti. E’ bello vedere la gente contenta.

Mancano poche ore alla “Corsa da Re”. Siete pronti?

Sì! Siamo oltre i 5000 iscritti: più di 1200 nella mezza maratona, 3000 nella 10 km, 1000 sui 4000 m e 300 “principini”. Speriamo nel meteo, ma la location farà dimenticare le bizzarrie del cielo.

La Bellezza può tutto.

Infatti i numeri sono da record: centinaia di podisti che vengono da altre province, decine da altre regioni e ci sono addirittura diversi francesi. Per una corsa non competitiva, senza premi né caratteristiche oltre alla bellezza dei luoghi, è un risultato straordinario. Resta solo il rammarico dello staff: non poterla correre!

Lei continua a gareggiare?

Continuo a correre per divertirmi.

Da istruttore è diventato direttore di Sport City. Su quali progetti si sta impegnando?

Ci siamo spostati al Lingotto, dove abbiamo uno spazio maggiore per le esercitazioni outdoor. Possiamo usare la pista e andare al Valentino sarà più comodo. Ci sono poi in programma sessioni di ginnastica nell’area del centro commerciale. E il 10 novembre lo start ufficiale: esordiamo (sarà l’edizione zero!) con la “Ling8run”, una corsa tutta all’interno del complesso. I partecipanti sfreccieranno tra i negozi, sulla rampa, e persino sulla passerella olimpica.

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Com’è cambiato il fitness in questi anni?

C’è molta più competenza da parte chi si avvicina. Gli istruttori “fai da te” vengono emarginati; anche nella corsa, dove cresce la richiesta di consigli su dieta e tabelle. Non è più tempo di approssimazioni: tutti leggono perciò c’è più richiesta di attività salutari. Ma non è solo una moda: le persone vogliono stare bene! Nella testa e nel fisico. Anche per questo stanno tramontando i pesi e il potenziamento specifico: c’è più bisogno di esercizi funzionali alla vita di tutti i giorni.

Da quanti anni corre?

Ho cominciato nel ’76 con l’atletica leggera, al Cus Torino. Poi mi sono dedicato alla marcia e successivamente sono tornato in pista seguendo le orme di mia sorella, una vera campionessa. Dal ’80 ho cominciato seriamente con la corsa. Da allora sono passate quasi cento maratone e più di 250000 km. Ho un personale di 2h15′ sulla maratona e 1h3′ sulla mezza. Sono stato più volte in nazionale, anche con il duathlon: sono arrivato ventesimo ai mondiali e ho vinto tre titoli italiani a squadre.

Il suo miglior risultato?

Due a pari merito: il titolo italiano assoluto sui 30 km, davanti a Bordin già campione olimpico, e ai grandissimi Poli e Pizzolato. E poi la vittoria alla 100 km Torino-Saint Vincent, in 7h20′.

Ha mai pensato di smettere?

No, ma ho avuto un momento di difficoltà tra i 30 e i 40 anni. Pensavo di riuscire a sostenere il ritmo dell’agonismo nonostante il lavoro e l’età, e invece non era possibile. Mi ci è voluto un po’, ma mi sono reinventato.

La cosa più bella del suo sport.

Il benessere e il raccoglimento mentale che ho quando corro. Il cervello ragiona molto meglio quando il sangue è più ossigenato. Se ho un problema prendo le scarpe…

 

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Il piacere di correre

24 settembre 2006, Maratona di Torino. Il primo europeo, undicesimo assoluto, si chiama Alessandro Giannone. Oggi fa correre gli altri: è il Direttore Tecnico di Base Running Team, 450 podisti da allenare e una task force con cui organizzare almeno cinque grandi gare all’anno.

Quando hai iniziato a correre?

Dal 1988 (avevo 14 anni) al 2000 ho gareggiato su pista, con buoni risultati a livello nazionale. Poi a 26 anni sono approdato all’attività su strada. Ho aumentato il chilometraggio e mi sono concentrato su mezza maratona e maratona. Il mio miglior piazzamento è stato quello di Torino, nel 2006.

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Chi erano i tuoi modelli da ragazzo?

Ho vissuto l’atletica negli anni dei grandi campioni, quando noi italiani vincevamo le Olimpiadi. Ho avuto la fortuna di correre con numeri uno come Gennaro Di Napoli, di crescere mentre Bordin, Antibo e Panetta incantavano il mondo con le loro imprese. Se proprio devo scegliere le emozioni più forti me le ha regalate Gelindo Bordin. Ma il periodo d’oro degli italiani è durato solo fino al 1995.

Oggi non ci sono campioni in azzurro?

Purtroppo soprattutto nel mezzo fondo prolungato siamo deboli, perché c’è stata poca continuità negli anni. L’ultimo a vincere è stato Stefano Baldini ad Atene nel 2004. Dopo di lui non siamo riusciti ad essere molto competitivi, tranne qualche comparsa: grossi atleti però non ne vedo. Gli unici due sono Lalli e Meucci: sono due talenti. Potrebbe rappresentare il futuro della nostra maratona.

Tu hai smesso di gareggiare?

Non del tutto, ma ho dovuto rallentare molto il ritmo degli allenamenti. Il lavoro di allenatore e organizzatore di eventi da qualche anno è la priorità. Nel 2007 ha aperto il negozio, nel 2008 abbiamo fondato il Base Running Team, ereditando la squadra di Sport City di Alessandro Rastello. Insieme siamo cresciuti da 30 elementi a 450 in cinque anni: proponiamo due allenamenti collettivi nei due parchi principali della città, il Valentino e il Ruffini. Dividiamo i runners in gruppetti a seconda della velocità: così ognuno può crescere con le indicazioni degli allenatori ed è stimolato dal confronto con i compagni.

Perché sessioni collettive, se la corsa è uno sport individuale?

Perché può essere un po’ noiosa, sopratutto quando le sedute sono lunghe e frequenti. Il gruppo è un ottimo incentivo per non scoraggiarsi e arrivare fino in fondo: il piacere della corsa si sente dopo la fatica.

Possono iscriversi anche i neofiti?

Certo. Abbiamo un allenamento apposta per loro, di avviamento alla corsa, il mercoledì. E stiamo provando a strutturarci anche a livello giovanile: ci piacerebbe istituire una Running School. Speriamo che sia pronta per il 2014!

Com’è cambiato il podismo in questi anni?

Una volta eravamo di meno ma la maggioranza aveva velleità agonistiche. Oggi tantissimi corrono solo per stare bene o per piacere. E’ evidente se guardiamo le scarpe. Le tipologie sono aumentate, perché sono aumentati i tipi di corridori: ci sono, ad esempio, molte persone di peso medio alto che iniziano a correre. Per loro servono scarpe più robuste e sostenute. In generale, le calzature sono diventate più tecniche ma anche più delicate: durano meno.

Si spende ancora per i materiali o la crisi ha costretto a tagliare anche su quelli?

No. Gli appassionati investono volentieri perché conoscono l’importanza di avere la scarpa giusta nei piedi. E quelli che sono alle prime armi se ne accorgono subito: escono un paio di volte con quello che hanno in casa, poi si fanno male e allora vengono da noi. Ogni cliente ha le sue caratteristiche: ci sforziamo di consigliare la scarpa più adatta.

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Il 13 ottobre è il giorno de “Una corsa da re”. Siete pronti?

Sì! La prepariamo dall’estate. E’ una manifestazione complessa, perché comprende tre corse in un solo giorno. Sono previsti, com’è stato lo scorso anno, 5000 partecipanti. Ho potuto contare su uno staff tecnico molto valido oltre che su i nostri straordinari volontari.

Quali altre manifestazioni gestite?

La “Valentino“, una gara serale in estate (l’ultima lo scorso 4 luglio). Poi la “LingottoRun” (il prossimo 10 novembre), la mezza “Un Po di corsa” (15 dicembre), la “RunTogheter” in occasione del derby Juve-Toro (23 febbraio 2014). Tutte le informazioni sono online sul nostro sito.

E’ più difficile allenarsi per una maratona o organizzarla?

Sono sensazioni diverse: la gestione di un evento richiede un grande impegno mentale, paragonabile a quello fisico di chi corre. E quando vedo che va tutto bene, che tanta gente lavora… beh, mi dà la stessa soddisfazione di un risultato ottenuto con le mie gambe.

Che cos’hanno in comune Vitalia e Base Running? 

La qualità del servizio: ottimo da entrambi!

[message type=”info”] La prossima settimana pubblicheremo i consigli per preparare al meglio la “Corsa da re”. Tenete d’occhio i nostri canali social: la pagina Facebook e il profilo Twitter Vitalia Informa. [/message]

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Take away training

Immaginiamo di dover fare esercizio con cadenza quotidiana, perché, in molte situazioni, la ripetizione dello stimolo è fondamentale.

Immaginiamo di non avere troppo tempo a disposizione.

Immaginiamo di voler continuare ad allenarci a casa o nella palestra dove siamo sempre andati, ma di faticare a ricordare quei particolari movimenti.

Allora, ancora una volta, tablet e smartphone possono darci una bella mano e Vitalia è pronta a questo nuovo passo tecnologico a supporto del benessere.

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Come funziona

Durante le sedute di allenamento, o di rieducazione funzionale, si imparano gli esercizi. Quando si è in grado di farli bene, si passa alla registrazione video. I video costituiscono il programma individuale e vengono inviati al paziente che li può visualizzare su smartphone, tablet (Apple o Android) o PC.

A casa, o dalla palestra, si accede al programma e si ripetono gli esercizi tenendo d’occhio i video per essere sicuri di non commettere errori. 

Periodicamente si ritorna da Vitalia per una seduta di verifica e per un aggiornamento del programma.

I vantaggi

Gli esercizi da fare per conto proprio vengono prima imparati con la supervisione dello staff Vitalia

L’app registra tutti gli allenamenti svolti.

Il programma è sempre a portata di mano, ovunque.

Ci sembra un bel modo per allenarsi o recuperare da un infortunio massimizzando risultati e tempo.

Contattaci per iniziare subito ad allenarti con noi. 

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